giovedì 24 dicembre 2009

BUONISMO E REALISMO

(Dalla mail "semi-confidenziale" di Carmela Longo ai co...ncittadini in movimento)

Ragazzi, abbiate la pazienza di leggere queste poche considerazioni scaturite in me qualche giorno fa, a proposito del presunto "buonismo", di chicche e sia.
Ve tocca!
Baci comunitari!
Carmela

Più che di buonismo parlerei di realismo, con un pizzico di utopia che è il motore del mondo.
La situazione attuale del nostro paese ci dice che le divisioni sono tante, i rancori e i risentimenti accumulatisi negli anni, le incomprensioni, i fraintendimenti, talvolta le chiare volontà di arrecare danno o discredito a qualcuno, sono sotto gli occhi di tutti.
E’ d’altro canto storia dell’umanità, dividere è più facile che unire, rimanere nella propria rabbia è più facile che sforzarsi a trovare un terreno di condivisione comune.
Allora la sfida non è sul terreno del “buonismo”.
Il buonismo ideologico, secondo me, porta a voler subito bypassare il conflitto.
Il buonista tout court non si può permettere di ospitare in sé la rabbia del sentirsi incompreso, attaccato, umiliato o quant’altro.
Al buonista la rabbia sua spaventa più della rabbia dell’altro.
Anzi, la rabbia dell’altro è ben accetta, quasi accolta come dato a favore della superiorità (mai ammessa) del buonista sull’altro, che si è lasciato andare a bassi istinti.
Il buonista non crede mai effettivamente nella possibilità di un mondo diverso, a lui basta attestare la sua superiorità.
Paradossalmente, non ospitando in sé la rabbia e la voglia di vendetta che spesso accompagnano chi si sente ferito nella propria autostima, ha bisogno di un mondo dispari, altrimenti non potrebbe più esistere.
No. Il buonista non serve a questa società.
Ci servono uomini e donne interi.
Che sanno cos’è la rabbia.
Che l’accettano anzi l’accolgano come dato vitale, come emozione adattiva, come sentire che ci dà lo spessore della nostra appartenenza a un mondo istintuale che non possiamo e non dobbiamo rinnegare.
Che la sanno riconoscere, e sanno dire: sto incazzato perché mi sento schernito, oppure perché mi sento incompreso, oppure perché mi sento allontanato, ecc.
Andando in fondo vedremo che il succo di tutto è spesso: sto incazzato perché non mi sento amato, perché non mi sento accettato, perché mi sento rifiutato.
Dicevo uomini e donne interi.
Che sanno farsi attraversare anche dalla rabbia, e che vigilano e si impegnano perché non diventi rancore. Il rancore si che è distruttivo, è una reiterazione che consuma dal di dentro chi lo cova, e non permette l’aprirsi di uno spazio altro, in cui nella relazione è possibile recuperare impulsi di umanità.
Uomini e donne interi, che sanno che in alcune situazioni, dove è doveroso impegnarsi in un progetto ambizioso, qual è il nostro (una comunità che diventi sempre più competente delle proprie risorse, delle proprie responsabilità, dei propri bisogni e dei propri limiti), non si può abbandonare il campo e dire “tanto fanno tutti schifo”, oppure “non faccio più niente perché non mi voglio far strumentalizzare”. Questa è l’anteprima dell’ignavia.
Quindi, dicevo, realismo e utopia. Questo ci serve.
Sono inconciliabili? Assolutamente no. Sono complementari.
Il realismo ci deve servire per considerare la natura dell’essere umano. Dall’essere umano può uscire tutto il bene e tutto il male. E’ sempre stato così. E allora? La nostra scelta è: quale contributo pensiamo di dare in un senso o in un altro? E può non esserci assolutamente altruismo in questo. Io cerco di seguire il bene, per esempio, perché fa stare bene a me, alla mia autostima, perché mi piace vedermi come una persona che si impegna per il bene. Ma tante volte, per seguire il mio impegno nel bene, semino male. Le mie figlie mi dicono che sono troppo impegnata, che sto poco con loro. Bene e male alla fin fine sembrano più i poli di una calamita, si ricostituiscono sempre. Pensate che ad es. il figlio di Gandhi era un fannullone perdigiorno e sembra abbia avuto anche un ruolo nell’assassinio del padre.
E allora? Che vita possiamo vivere? E qui ci viene incontro l’utopia. Ci dà la spinta.
Trovare nella comunità i fattori comuni, ciò che interessa a tutti, i mezzi condivisibili dal maggior numero di persone, diffondere nella comunità i valori della cooperazione e del dono (communis evoca l’esperienza del munus, del dono), accettando anche i momenti di conflitto e di divergenza, come possibilità di accrescere le risposte ai problemi.

ACCETTARE LA DIMENSIONE COMUNE COME LUOGO DOVE SI PUO’ REALIZZARE UN’INTESA SEMPRE POSSIBILE E MAI SCONTATA.

Costruire la capacità di HOLDING (letter.”tenere in braccio”).
E’ un termine che in psicologia indica la capacità della mamma di “tenere” il suo bambino tra le braccia, ma non solo e non tanto letteralmente, quanto nella capacità di mantenere la situazione in mano, dare un contenitore solido, quando il bambino è disperato, o è arrabbiatissimo, o urla, o piange. Tenerlo tra le braccia, non lasciarlo cadere, avendo fiducia che quel momento passerà.
Ci vuole forza enorme nel fare ciò, anche perché è chiaro che la mamma potrebbe a sua volta essere arrabbiata, disperata, sconnessa. Ma lei è la mamma, e da lei ci si aspetta maggiore tenuta. E’ lei che deve nutrire.
Noi non siamo la mamma di questa comunità, ma siamo però persone che non si arrendono a dire semplicemente che fa tutto schifo, perché questo sarebbe di uno sconforto spaventoso, e non sarebbe neanche veritiero. Certo, c’è da farsi un culo così. Ma noi ci siamo.

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